Altro spettacolo proiettato al Rathaus: Die Boheme in Hochhaus, ossia la Boheme in condominio, in periferia o simile. Produzione svizzera della celebre opera di G. Puccini in forma televisiva e girata in una casa popolare nei sobborghi di Berna.
La rappresentazione scenica, con i cantanti di bella presenza ed in abiti ottocenteschi che interagivano con i normali inquilini del palazzo dei nostri giorni, voleva, secondo le intenzioni degli autori più volte illustrate dai presentatori che importunamente interrompevano di continuo la musica con i loro interventi, portare l'opera in casa alla persone comuni, che normalmente non possono permettersi un biglietto a teatro. Intenzione lodevole e rappresentazione interessante, difficile con l'orchestra che suona in una palestra o quel che era ed i cantanti cantare una volta nella lavanderia, un'altra in un centro commerciale, ma...
Ma non mi ha colpito. Non è facile portare un opera al grande pubblico. Nonostante la bravura dei solisti, tutti convincenti, il fatto, voluto, che i protagonisti dell'opera non vestissero come gli altri "attori" ma indossassero i tradizionali costumi di scena, ha fatto sì che la vicenda rimanesse nel mito. Troppo distante per essere coinvolgente. Non c'è stata l'immedesimazione nei personaggi che avviene in un piccolo teatro. Il culmine dell'estraneazione, quando Mimì muore e viene portata via da un autobus con la scritta "Endstation", ossia capolinea ma metaforicamente anche destinazione finale, quindi morte. L'idea in sé è geniale, ma Mimì, che non tossisce una volta in tutto il film-opera, resta vestita con crinolina e scialle... non in minigonna e calze di rete, magari con la pelle scura, come potremmo vederla ai giorni nostri...
Insomma, se si vuole attualizzare un'opera si vada fino in fondo! Questo metateatro non mi ha convinto. Ne risente anche la musica, con dialoghi in una lingua lontana, non solo nel tempo ma anche geograficamente visto che le interviste erano in francese e tedesco... e i sottotitoli in inglese! Magari con un'altra opera avrebbe funzionato, ma l'intimità di questo Puccini è stata distrutta dagli spazi moderni ed ampi del nostro quotidiano. Peccato!
La rappresentazione scenica, con i cantanti di bella presenza ed in abiti ottocenteschi che interagivano con i normali inquilini del palazzo dei nostri giorni, voleva, secondo le intenzioni degli autori più volte illustrate dai presentatori che importunamente interrompevano di continuo la musica con i loro interventi, portare l'opera in casa alla persone comuni, che normalmente non possono permettersi un biglietto a teatro. Intenzione lodevole e rappresentazione interessante, difficile con l'orchestra che suona in una palestra o quel che era ed i cantanti cantare una volta nella lavanderia, un'altra in un centro commerciale, ma...
Ma non mi ha colpito. Non è facile portare un opera al grande pubblico. Nonostante la bravura dei solisti, tutti convincenti, il fatto, voluto, che i protagonisti dell'opera non vestissero come gli altri "attori" ma indossassero i tradizionali costumi di scena, ha fatto sì che la vicenda rimanesse nel mito. Troppo distante per essere coinvolgente. Non c'è stata l'immedesimazione nei personaggi che avviene in un piccolo teatro. Il culmine dell'estraneazione, quando Mimì muore e viene portata via da un autobus con la scritta "Endstation", ossia capolinea ma metaforicamente anche destinazione finale, quindi morte. L'idea in sé è geniale, ma Mimì, che non tossisce una volta in tutto il film-opera, resta vestita con crinolina e scialle... non in minigonna e calze di rete, magari con la pelle scura, come potremmo vederla ai giorni nostri...
Insomma, se si vuole attualizzare un'opera si vada fino in fondo! Questo metateatro non mi ha convinto. Ne risente anche la musica, con dialoghi in una lingua lontana, non solo nel tempo ma anche geograficamente visto che le interviste erano in francese e tedesco... e i sottotitoli in inglese! Magari con un'altra opera avrebbe funzionato, ma l'intimità di questo Puccini è stata distrutta dagli spazi moderni ed ampi del nostro quotidiano. Peccato!
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